Mi chiamo Chiara e lavoro a “Giromondo”, comunità che ospita MSNA (Minorenni Stranieri Non Accompagnati) e neomaggiorenni.
A Giromondo ogni giorno si lavora per accompagnare e sostenere ragazzi nel loro percorso di crescita e autonomia sul territorio italiano, senza però tralasciare che si tratta di giovani stranieri, con una propria identità, risorse e desideri e che hanno anche alle spalle una famiglia, una rete di connazionali e un progetto migratorio, che spesso ne condizionano le scelte nel loro percorso comunitario. L’integrazione è sicuramente l’obiettivo ultimo della comunità che quotidianamente incoraggia i ragazzi a impegnarsi e sperimentarsi nella formazione e nel lavoro, passando attraverso le relazioni, le autonomie domestiche e la burocrazia. Gli ospiti cambiano piuttosto di frequente, la sfida è fornire loro, con il poco tempo a disposizione, strumenti adeguati per diventare giovani adulti responsabili, indipendenti economicamente e abitativamente, per poter seguire un giorno le proprie aspirazioni e nello stesso tempo continuare ad aiutare la famiglia nel Paese d’origine.
Per il secondo anno la comunità Giromondo ha proposto un laboratorio di arteterapia che è terminato con la riqualificazione di un rustico comunale al centro del paese. Attività come questa servono a rendere visibili la comunità, i ragazzi e i loro progetti, ma anche a dichiarare di voler far parte di un territorio che per un periodo di tempo è “casa”.
Una domenica mattina, proprio mentre lavoravamo al rustico insieme ai ragazzi, si è avvicinato un uomo, con l’evidente intenzione di fare polemica, con l’amministrazione comunale ma anche con i ragazzi, mettendo in dubbio il reale bisogno e le motivazioni che li hanno spinti (spesso costretti) a venire in Italia. Non era mosso dal reale desiderio di conoscere o di discutere e si è rivolto a me e ai ragazzi con modi e toni aggressivi, per nulla adatti a ragazzi poco più che adolescenti. Ho cercato di rimanere tranquilla e spiegare il nostro lavoro, trasmettere il valore, in cui credo, di quanto stavamo facendo. Quell’uomo però se n’è andato senza voler ascoltare e ne sono stata dispiaciuta, anche se non stupita. A stupirmi invece sono stati i ragazzi. Nessun commento, neanche nella loro lingua, neanche quando ormai eravamo rimasti di nuovo soli, non hanno ceduto alle provocazioni, non sono caduti nella trappola di una discussione sterile e aggressiva, anche se ne avrebbero avuto motivo. Hanno lasciato che parlasse il loro silenzio e il loro contegno e che trovassi io per loro le parole.
Lavorare con questi ragazzi non è sempre semplice, diverse sono le difficoltà: linguistiche, generazionali e culturali, la fatica ad affidarsi e condividere le storie, le loro paure ma anche i loro progetti. È facile invece scontrarsi con persone stanche, frustrate, che si sentono in diritto di giudicare, generalizzando senza darsi pena di conoscere. Oggi ancora di più, lavorare con i ragazzi di Giromondo è una scelta sociale e politica, e scegliere da che parte stare non significa buonismo né tantomeno pietà, anzi, rispetto delle regole, degli impegni, di un mondo diverso da quello delle loro origini: solo lavorando quotidianamente con i ragazzi possiamo sperare di formare nuove generazioni capaci e consapevoli. Cercando di creare ponti tramite cui connettersi e conoscersi vicendevolmente.